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Periferie urbane senza visione

Venerdì 05 Dicembre 2014 14:16  |  Editoriali  |  

di Laura Cipollini

Circa dieci anni fa, in seguito a un lavoro di ricerca svolto a Sarajevo, la città "Gerusalemme dei Balcani", decisi di mettere a frutto in Italia le riflessioni emerse da quell'esperienza. Certo, i contesti culturali di partenza dei due paesi sono per molti aspetti assai diversi fra loro, ma credo che nessuna società possa sentirsi esclusa da conflitti che si alimentano di frustrazioni, senso di esclusione, ingiustizie, difficoltà concrete, indifferenza politica e istigazione al conflitto ("Sarajevo, le città degli abitanti", in Città e memoria, Bruno Mondadori). I cittadini di Sarajevo, città che nasce interculturale e multireligiosa, erano convinti che la guerra non li avrebbe mai toccati; quando una parte di loro, soprattutto nuovi cittadini frutto delle migrazioni massicce determinate dalla pianificazione di Tito, salì sulle colline per mettere sotto assedio la città, la notizia venne appresa con incredulità e sgomento. Alcuni studi degli anni '80 avevano fatto emergere tensioni sociali di una certa rilevanza nelle periferie urbane, ma nulla era stato fatto per capirne la natura ed eliminarne la pericolosità latente.

Dal momento che in Italia gli unici laboratori permanenti di cittadinanza attiva sono le aule scolastiche, la mia ricerca-azione si è svolta sino ad oggi in questi luoghi, microcosmi rappresentativi delle nostre comunità urbane. I temi al centro delle attività che ho elaborato nel corso degli anni, in estrema sintesi, sono le interazioni fra contesti abitativi, dinamiche relazionali nei sistemi complessi, ascolto attivo, processi di costruzione identitaria, sia individuali che collettivi e qualità della vita. 

Ormai da anni si parla di società interculturale, e quindi di pedagogia della complessità e della diversità, ma gli interventi nella prassi quotidiana si risolvono spesso in progetti isolati e di superficie. I fatti che in questi giorni hanno interessato alcune periferie italiane, Tor Sapienza su tutte, testimoniano inoltre scelte politico-urbanistiche infelici, le cui conseguenze sono scontate. Bombe a orologeria per cui è solo una questione di tempo. In un paese dove i problemi esistono solo quando assumono toni eclatanti, per poi tornare nel dimenticatoio, si parla molto e non si fa nulla, o quasi, fino alla inevitabile successiva esplosione.

Viviamo in una società-mondo che non possiamo ignorare, discutiamo di meritocrazia, della necessità di cambiare la coscienza del paese, dell'importanza della scuola per formare cittadini consapevoli e creativi, capaci di risollevare le nostre sorti... ma chi ricopre ruoli di potere e potrebbe fare la differenza, a tutti i livelli, resta imperturbabile ad assistere il Titanic che affonda.

Credo che oggi vi sia la necessità di porre al centro dell'attenzione, e quindi delle strategie educative trasversali alla didattica curricolare, i significati dell’abita­re e dell’identità, per poter ragionare insieme sulla quali­tà della vita degli abitanti.

L'esperienza dell'abitare contiene in sè una reciprocità di significati illuminante: da un lato il senso del possesso, dall'altro quello di appartenenza alla comunità di cui, bene o male, facciamo parte. Se l'esistenza dell’uomo è una profondissima comunicazione e vi­vere è in sé un’esperienza dialogica, perché significa partecipare a un dialogo in cui interroghiamo, ascoltiamo, rispondiamo, acconsentia­mo, dissentiamo… il contesto, che rivela lo spazio e il tempo in cui ciò avviene, non può essere considerato pura scenografia muta, quanto piuttosto un soggetto parlante, capace di influire in modo significativo sulle dinamiche di relazione, sulla percezione del sè, sulla percezione degli altri, sulla costruzione dei processi identitari, sia individuali che collettivi. Il paesaggio in cui abitiamo è da considerarsi un eccezionale ipertesto con cui interagiamo costantemente nel nostro quotidiano; esso è una fonte di reminders eccezionale, solo però se siamo messi nella condizione di decifrarne le catene semantiche, se possiamo agire da protagonisti, soprattutto quando le catene semantiche sono castranti e oppressive.

Ormai tutti i pedagogisti sono concordi nell'affermare che la creazione del gruppo, e quindi del senso di appartenenza, è conditio sine qua non per poter svolgere qualsiasi progetto didattico. Questo ragionamento, trasferito al di fuori delle aule scolastiche, è alla base di qualsiasi laboratorio di cittadinanza attiva, a maggior ragione se vogliamo migliorare la qualità della vita nei quartieri degradati. In una società globalizzata in cui la comunicazione pervade tutto, o quasi, oggi sembra quasi che si sia persa la capacità di ascoltare. Forse sarebbe più corretto dire che non sappiamo ascoltare e relazionarci nel modo giusto, e a questo proposito la scuola ha grandi responsabilità. Non credo esista una bacchetta magica per risolvere i gravi problemi che oggi ci affliggono, ma ritengo, questo si, che esistano alcuni strumenti che sono strategici per intervenire in modo adeguato e contribuire così a migliorare le nostre prospettive. A questo proposito vorrei fare un esempio di proporzioni internazionali.  

Negli ultimi mesi l'Isis è al centro delle notizie, e ciò che scopriamo riguardo al reclutamento dei giovani terroristi non è tranquillizzante. Perchè il ragazzo della porta accanto, spesso immigrato di seconda generazione, quindi nato nel paese di adozione dei genitori, dopo aver frequentato con successo le scuole del suo paese e aver (apparentemente) costruito una rete di amicizie nel luogo in cui abita, decide di lasciare la sua vita per diventare un terrorista? Conoscendo le guerre "di religione" che si sono succedute nel corso della storia saprete benissimo che la religione non c'entra nulla. La religione viene dopo, è un eccellente strumento di coesione. E infatti diversi ragazzi, prima di partire per il medio-oriente, hanno comprato il libro L'islam per principianti, per non arrivare a digiuno. Le riflessioni di J. Horgan, uno studioso americano che si occupa di psicologia politica, sono perfettamente in sintonia con quanto detto sino ad ora. Dopo aver descritto le quattro componenti psicologiche principali che caratterizzano il profilo del terrorista, Horgan afferma infatti che sono le dinamiche sociali il fattore scatenante della loro scelta di vita. La volontà di appartenere alla comunità dei terroristi è da considerarsi speculare al senso di esclusione sviluppato nelle società occidentali. Si parla quindi del senso di appartenenza, quel sentimento cruciale che l'atto di abitare contribuisce a costruire quotidianamente e che può essere distorto da una moltitudine di fattori, a partire dal contesto in cui abitiamo e dal tipo di metacomunicazione a cui siamo sottoposti.

La mia esperienza concreta è maturata nelle scuole di alcuni quartieri o comunità con una forte componente di cittadini stranieri, come già detto, all'Università, dove ho collaborato in alcuni corsi, e in un quartiere ghetto presso la mia città, abitato da soli cittadini di origini straniere. In quest'ultimo  caso il mio intervento era finalizzato alla progettazione partecipata per la sua riqualificazione.

Sebbene i temi a cui ho accennato siano così incisivi nella qualità della vita di ciascuno di noi, la mia sensazione è che i docenti, lasciati nel più totale abbandono, siano gli unici soggetti delegati dalle nostre società ad affrontare sul campo, senza strumenti adeguati, situazioni che per la loro complessità e delicatezza avrebbero bisogno di essere al centro dell'attenzione di tutti. Nel 2012 ho pubblicato un libro (La scuola delle opportunità, Morlacchi editore) che  voleva essere uno strumento di aiuto per i docenti; il testo è stato adottato nei corsi di cui ero cultrice della materia ed ha riscosso commenti molto favorevoli, fra cui uno la dice lunga. "Dopo 4 anni di università, finalmente il primo libro in cui si parla di temi attuali e in modo adeguato". Confortata dai riscontri avuti sul campo, sollecitata dai docenti con cui ho collaborato, ho proposto i miei progetti a dirigenti scolastici, dirigenti degli uffici scolastici regionali, assessori comunali e provinciali. Secondo voi ho ricevuto qualche risposta? È vero, mancano i soldi. Ma non è tutto. La mia impressione è che manchi, da parte di chi dovrebbe individuare le strategie, la capacità di ragionare in termini di complessità. Non sono forse i momenti di crisi  quelli in cui le strategie sono ancora più importanti, per massimizzare le poche risorse a disposizione? E allora cosa c'entra un architetto con i progetti di intercultura? In che modo attività che ruotano intorno ai temi elencati all'inizio di questo articolo possono migliorare le dinamiche del gruppo, aumentare l'autostima degli studenti e motivarli ad esprimersi  al meglio delle loro potenzialità? Come è possibile che facendo laboratori su questi temi migliori la qualità della vita di studenti e docenti?

Forse le notizie di questi giorni hanno illuminato qualcuno, chissà…

 

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