di Ettore Maria Mazzola
Come c’era da aspettarsi, a pochissime ore dal sisma che ha devastato molti comuni tra Lazio, Umbria e Marche, è partita la caccia alle streghe. Si badi, è più che legittimo che si ricerchino gli eventuali responsabili di tante morti, ma il polverone che si è alzato è più alto di quello provocato dai crolli.
Qualcuno ha accusato l’età, la tipologia e le tecniche costruttive degli edifici vernacolari, ignorando il fatto che quegli stessi edifici hanno resistito per secoli ad altri violenti terremoti prima che l’uomo moderno ci mettesse la sua opera.
Volendo far chiarezza sugli eventuali responsabili di tante morti e tanti crolli, semmai, bisognerebbe puntare il dito contro gli impropri sovraccarichi ed irrigidimenti delle strutture antiche che ne hanno modificato la stabilità. Tra questi, purtroppo, vi sono proprio molti degli interventi di “adeguamento sismico” e “miglioramento sismico” eseguiti di recente su molti degli edifici che abbiam visto polverizzarsi. Le indagini dovranno spiegare chi, come e perché abbia realizzato determinati lavori che, ancora una volta, dimostrano quanto assurdo sia il sistema italiano degli incarichi e degli appalti e quanto assurda sia l’utilizzazione del cemento armato sugli edifici antichi.
Non possiamo esimerci dal sottolineare quanto squallido appaia il giocare sulle parole “adeguamento” e “miglioramento” al quale stiamo assistendo in questi giorni. Bene ha fatto Stefano Della Torre, ingegnere e architetto, ordinario di restauro, direttore del dipartimento ABC del Politecnico di Milano e presidente di buildingSMART Italia, a criticare i giornalisti e i colleghi che in questi giorni hanno speculato sulla differenza terminologica, parlando di “miglioramento sismico” come di un modo cialtrone di risparmiare fingendo di rendere sicuri gli edifici.
Della Torre, nel suo articolo datato 2 settembre, ha ben chiarito le differenze tra i due interventi ed ha ben spiegato come e perché sia nata l’esigenza di dover differenziare gli interventi in relazione al tipo di edifici su cui si interviene.
Della Torre ha spiegato: «Il miglioramento NON significa accontentarsi di un livello di sicurezza minore. Del resto non sarebbe pensabile che proprio i monumenti più preziosi venissero lasciati al più alto rischio. Si tratta soltanto di applicare modalità alternative di valutazione, anche rinunciando a esprimere un tipo di sicurezza come percentuale dell’altra, e soprattutto di tener conto della dimostrata inefficacia della filosofia d’intervento che ha prodotto gli accoppiamenti meno giudiziosi tra vecchio e nuovo».
Dell’articolo di Della Torre, a parte il prezioso apporto tecnico, ho però apprezzato particolarmente la chiosa, dove senza peli sulla lingua, ha affermato:
«Allora non piangiamo sull’annullamento della circolare ispirata da ARCO, ma preoccupiamoci per una sorta di riflusso culturale che, storpiando e svilendo quella che è stata una conquista scientifica, apre la strada a possibili ritirate del MIBACT anche su altri fronti. A meno che questa prontezza a seguire l’onda delle emozioni non dipenda dalla ossessione per la comunicazione e dalla cattiva coscienza di un ministro che per due anni ha professato la retorica pervasiva di una epidermica “Bellezza” e la priorità della valorizzazione, di conseguenza orientando i magri investimenti: i soldi per fare spettacolo al Colosseo ci sono, e tanti, la verifica della vulnerabilità sismica dei musei statali si è completata, in sordina, grazie al cofinanziamento delle università, nessun investimento per l’attuazione della conservazione preventiva».
Il nostro Paese spende molto per realizzare e mantenere inutili e orribili musei di “arte” contemporanea, nonché per “valorizzare culturalmente” con “contaminazioni contemporanee” luoghi e monumenti storici che non ne necessitano affatto. Vi è da chiedersi se esistano davvero altri beneficiari che non siano gli stessi produttori e promotori di tali discutibili iniziative. Di fatto però, poi, i denari per poter restaurare e mettere in sicurezza il patrimonio che il mondo ci invidia non ci sono. Nessuno si indigna, salvo quando una tragedia o uno scandalo sono ormai avvenuti. Ma anche allora nessuno tenta di cambiare il sistema degli appalti e degli incarichi… semmai politici e giornalisti si affannano a chiedere pareri inutili a personaggi di bassa competenza ma che, ai fini della società dello spettacolo, possono garantire un minimo di visibilità. Anche questo è sciacallaggio.
I grandi nomi dell’architetto di fama internazionale o dell’azienda che vanta tanti appalti (spesso dovuti agli agganci piuttosto che a reale professionalità) non sono una garanzia. Al contrario, le “archistar” che si dedicano al “nuovo” spessissimo non hanno alcuna idea di come intervenire in maniera rispettosa dei luoghi, degli edifici e dei cittadini. Delle “grandi imprese” che si aggiudicano gli appalti (spesso al maggior ribasso) sappiamo tutti poi come funziona il sistema del subappalto ad imprese più piccole che, a loro volta, subappaltano ad imprese ancora più piccole le quali, in qualche modo, dovranno riuscire a guadagnare qualche briciola, con la conseguenza che qualcosa verrà risparmiato, mettendo a repentaglio la vita degli edifici e degli operai.
Esempi gestionali dai quali imparare
Il sistema degli appalti in Italia va dunque totalmente rivisto e, per fare questo, non occorre dover reinventare la ruota. Basterebbe infatti riprendere in considerazione dei nostri vecchi modelli virtuosi, mandati in pensione durante il ventennio fascista.
Un esempio è il modello dell’Unione Edilizia Messinese, sviluppato in occasione del terremoto del 1908. La sua validità dimostrata in quella triste occasione fece sì che nel 1915, dopo il terremoto della Marsica, evolvesse in Unione Edilizia Nazionale e ricevesse l’incarico di gestire l’opera di ricostruzione in Abruzzo, per poi divenire, insieme al Comitato Edilizio Centrale e all’Istituto per le Case Popolari, l’Ente Statale più efficiente in materia di edilizia pubblica, fino alla sua messa in liquidazione e scioglimento ad opera del governo Fascista nel 1925-26.
Tale istituzione non solo riuscì a rimettere in piedi le città devastate dai terremoti, ma poté dar casa alle decine di migliaia di immigrati che si riversavano su Roma dopo la Grande Guerra e, soprattutto, riuscì a risanare il bilancio del Comune di Roma, in bancarotta a causa della speculazione privata post unitaria.
La sana competizione tra pubblico e privato garantiva un sistema calmierato dei prezzi delle case e, cosa non da poco, dovendo competere con qualità edilizia prodotta dallo Stato, i costruttori privati erano stimolati a porre la massima attenzione alla qualità delle case che costruivano.
Da quella sana competizione, che vedeva o Stato dare il buon esempio, l’estetica, l’economia e la vita sociale delle nostre città trassero grandi benefici. Non è un caso se, all’indomani dello scioglimento dell’Unione Edilizia Nazionale e la limitazione dell’ICP ad ente gestore e non più costruttore di edilizia pubblica, la qualità edilizia ed urbanistica delle nostre città abbia cominciato ad agonizzare e l’economia sia sprofondata nel baratro.
Quell’edilizia virtuosa si fondava sull’artigianato, ragion per cui, oltre al rispetto per la tradizione dei luoghi, manteneva viva e prospera l’economia locale: avendo, per ragioni ideologiche, l’architettura abdicato a favore dell’edilizia industriale, le nostre città si sono impoverite a livello estetico, sociale ed economico.
Il trauma del terremoto, specie alla luce del fallimento della ricostruzione post terremoto d’Abruzzo, dovrebbe darci il coraggio di rivedere tutto il sistema, evitando il ripetersi degli errori recenti. Non occorre inventarsi nulla di nuovo, ma semplicemente riprendere in mano i metodi (costruttivi e gestionali) che si sono dimostrati validi in passato.
Come diceva Edmund Burke, «una civiltà sana è quella che mantiene intatti i rapporti col presente, col futuro e col passato. Quando il passato alimenta e sostiene il presente e il futuro, si ha una società evoluta» ciò vuol dire che, mostrarsi modesti imparando da chi ci ha preceduti, non significherebbe essere dei patetici nostalgici incapaci di progredire, bensì mostrare di appartenere ad una società evoluta.
Tra i vari esempi da cui imparare ci sono quelli delle ricostruzione che seguirono l’impressionante eruzione dell’Etna del 1669 e il devastante terremoto del Val di Noto del 1693. Purtroppo essi non ci vengono insegnati sui banchi dell’università, dove l’ideologia culturale a base di riviste patinate sponsorizzate dalle aziende produttrici di materiali e tecnologie industriali non lasciano spazio alla onestà intellettuale, e si insegna il pessimo esempio di Gibellina, piuttosto che quello del Val di Noto.
L’unità d’Italia ha portato con sé anche una triste manipolazione mediatica ai danni del Meridione sulla quale bene ha scritto Pino Aprile. Eppure il modello offerto dalla ricostruzione borbonica settecentesca mostra un livello di civiltà da fare invidia.
La sola analisi del diverso modo di intervenire sulle città dimostra come si operasse in modo da rispettare sia le esigenze di sicurezza che quelle identitarie dei diretti interessati: nel caso di Ragusa e Ibla è possibile rendersi conto del modo di coniugare gli interessi economici dei nuovi proprietari terrieri con quelle dei cittadini anziani che chiedevano di tornare nella loro città.
Quando si vive un trauma terribile come un terremoto o una guerra occorre ricostruire subito non solo le case, ma anche e soprattutto l’identità di un popolo ferito, mirando a confortare quel senso di appartenenza in assenza del quale non si potrebbe mai più avere una comunità.
Il Piano per la Costruzione della Nuova Noto comportò lunghi dibattimenti con i sopravvissuti a causa della necessità di spostare la città in un luogo meno scosceso che scongiurasse una nuova tragedia da “effetto domino”. Cosa interessante e poco conosciuta di questo piano fu che, accanto al piano ortogonale a terrazze caratterizzante la parte centrale della città, i margini dell’edificato vennero realizzati con un’urbanistica di matrice islamica, nonostante la città risalga al primo XVIII secolo: i sopravvissuti accettarono lo spostamento a patto di poter ricreare, nella nuova Noto, delle condizioni urbanistico-ambientali “organiche” simili a quelle vissute nella città di origine. In ciò Noto dimostra una sorta di prototipo del processo partecipativo nella pianificazione delle città.
Considerato il dibattito di questi giorni fra i sostenitori della ricostruzione com’era e dov’era e quelli che spingono per una ricostruzione che “esprima il nostro tempo”, ritengo utile riflettere sul fatto che, se cinicamente volessimo stilare una classifica di successo in questi progetti ricostruttivi del XVIII secolo, e se per fare questo dovessimo far forza sul “successo di pubblico” prendendo come campione il turista medio, ci accorgeremmo che, mentre la griglia urbana (dettata dall’ideologia del momento, nonché ovviamente dagli interessi privati e dalla semplicità compositiva), di Ragusa Nuova desta ben poco interesse, mentre il tessuto storico e le architetture di Ibla riscuotono un successo straordinario.
Ove si obbiettasse che le forme barocche di quelle città sono anch’esse “una novità” rispetto al passato occorrerebbe rispondere che quelle nuove architetture concavo-convesse comunque rispettano una grammatica immutata nei secoli, mentre i materiali impiegati, le tecniche costruttive e le cromie loro risultano perfettamente in linea con la tradizione dei luoghi.
Piuttosto, a dimostrazione della debolezza delle scelte ideologiche in campo urbanistico già suggerite per Amatrice – come per altro già avvenne in occasione della costruzione di Gibellina Nuova nel 1968 e delle New Town di l’Aquila – bisognerebbe analizzare il caso della cosiddetta “città ideale” di Grammichele, dove il piano urbanistico voluto e imposto a forza da Carlo Maria Carafa Branciforte, con la collaborazione dell’architetto Michele di Ferla, sebbene si presenti come un luogo “geometricamente perfetto”, risulta talmente astratto da apparire come una sorta di luogo metafisico del Settecento dove la vita non è di casa.
C’è però un altro modello virtuoso da prendere in considerazione, anch’esso settecentesco ed anch’esso proveniente dal Regno delle Due Sicilie. Si tratta però di un modello tecnico-strutturale più che gestionale, del quale parlerò ancora in chiusura: il Manuale di Costruzione Antisismica Borbonico del 1785 elaborato dopo il devastante terremoto che distrusse la Calabria nel 1783.
Polemiche, ipocrisia e responsabilità
Dopo una tragedia, come abbiamo detto, molti tuttologi si ergono ad esperti lanciando elucubrazioni le più disparate… Ma quanti danni possono creare certe “spiegazioni”, specie se pronunciate da persone che rivestono un ruolo importante all’occhio dell’opinione pubblica?
Per esempio il sindaco di Accumuli che ha giustificato il crollo del campanile della Chiesa di San Francesco dicendo "un crollo del genere, per un edificio snello e antico come quello ci può stare, non è colpa di nessuno!" evidentemente ignora o finge di ignorare che, prima di venir "consolidato in maniera moderna", quel campanile era sopravvissuto a terremoti ben più importanti. Lo stesso sindaco, qualche giorno dopo ha rincarato la dose lamentando il fatto che, “certi edifici come il campanile, sono realizzati con materiali vecchi e pericolosi e andrebbero sostituiti con materiali più moderni ma, purtroppo, a causa dei vincoli storici certe cose non ce le consentono e quindi dobbiamo accettare il pericolo.”
Demonizzare le strutture in muratura portante è un’assurdità. Politici, giornalisti e “tecnici” che non hanno cognizione delle cose che dicono, dovrebbero mestamente mettersi da parte e lasciare il campo a chi conosca la materia.
È scandaloso a mio avviso che i giornali possano “divertirsi” ad ironizzare sul fatto che un edificio criticato da tutti per il suo orripilante aspetto, risulti “l’unico sopravvissuto” ad Amatrice, sebbene nelle stesse foto pubblicate a supporto della tesi mostrino la Torre Civica del XII secolo ed altri edifici antichi ancora in piedi. Si tratta di una grave forma di disinformazione atta a influenzare l’opinione pubblica e non solo, visto che la Circolare del MIBAC a sostegno dell’uso delle tecniche costruttive tradizionali nel restauro dei monumenti è stata cancellata!
Perché i cronachisti non raccontano che la stragrande maggioranza degli edifici crollati era stata manomessa con nuovi piani, nuovi solai e tetti in cemento armato?
Anche nei terremoti di L'Aquila ed Emilia si sono avuti crolli di edifici antichi manomessi e, anche in quel caso, accanto agli edifici crollati, c'erano degli edifici del XII secolo che non presentavano nemmeno una crepa: La loro struttura, infatti era rimasta coerente, e perciò aveva resistito. Eppure nessuno s'è preso la briga di scrivere un articolo per far notare tanta "stranezza"... la cosa sarebbe apparsa come un tentativo di demonizzazione il prodotto dell'industria edilizia, a favore di quella artigianale.
Il brutto edificio di Amatrice è sopravvissuto perché, pur nella sua sconcezza, aveva comunque una sua struttura coerente, mentre gli edifici accanto erano stati modificati. Infatti con esso sono sopravvissuti anche molti edifici storici altrettanto strutturalmente coerenti. Nessuno infatti, come accaduto ad altri edifici a partire dalla metà del XX secolo, li aveva manomessi inserendo materiali e pesi inammissibili.
Fortunatamente, almeno a partire dal 1639, anno di un cataclisma simile a quello di questi giorni, esistono ben documentate le “cronache” dei terremoti che hanno afflitto nei secoli Amatrice e tutto il territorio circostante. Quelle cronache sono molto dettagliate e, per esempio, ci raccontano di come in occasione delle devastanti scosse del 7 e del 14 ottobre 1639 (quello del 7 ottobre è ritenuto il più forte mai registrato nella zona, anche superiore a quello di questi giorni) molti edifici distrutti nel 2016 restarono perfettamente in piedi anzi, addirittura, alcuni edifici vennero considerati talmente sicuri da essere ritenuti un vero e proprio rifugio. Nel testo si legge: “Alcuni fuggono, altri si rifugiano nella Chiesa di S. Domenico presso l’esercito del SS. Rosario per invocare la protezione della Beata Vergine”.
Altri devastanti terremoti ad Amatrice e dintorni si registrano nel 1646, nel 1672 e nel 1963, tuttavia molti degli edifici che sono venuti giù a fine agosto ressero l’urto… come mai? Il fatto che l’ultimo evento documentato sia quello del 1963, probabilmente ci consente di riconoscere quella data come termine post quem per l’avvio degli interventi di restauro e/o trasformazione che hanno visto il massiccio uso di cemento armato. Gli anni ’60 hanno lasciato un segno drammatico sui monumenti e le citta dell’intero territorio nazionale
Vogliamo dunque ricercare delle responsabilità e delle date? D’accordo, iniziamo col dire che la Carta del Restauro di Atene del 1931, imponendo l’impiego di materiali sperimentali, con uno specifico riferimento al cemento armato, ha sicuramente giocato un ruolo drammatico nel danneggiamento – che in alcuni casi è stata una vera perdita – del patrimonio architettonico italiano. Vogliamo anche dire che, certamente, ingegneri, architetti e geometri che non sanno nulla delle tecniche e dei materiali tradizionali dovrebbero essere interdetti in materia di restauro e/o ristrutturazione degli edifici storici? Diciamolo! Ma iniziamo però anche a denunciare l’irresponsabilità di certi politici che, per raccattare voti, hanno promosso, anche recentissimamente, campagne atte ad istigare la gente ad intervenire sui propri edifici facendo a meno della supervisione tecnica.
Nessun professionista avrà dimenticato – spero – come, nei primissimi mesi del 2015, gli attuali governanti che oggi siedono in prima fila per mostrarsi in TV mentre piangono i morti del sisma e, sempre in TV si mostrano dicendo di voler far giustizia, lanciarono la campagna di comunicazione del provvedimento “Sblocca Italia” che diceva “è casa tua, decidi tu”, istigando così gli italiani a fare a meno dei professionisti. Per par condicio ricordo che dichiarazioni simili le avevano già fatte alcuni “onorevoli” del Governo Berlusconi. Certe cose non danneggiano solo i professionisti ma, come ho avuto modo di scrivere in tempi non sospetti, rischiano di trasformare gli edifici in bombe ad orologeria pronte a far danni in casi come quello di questi giorni.
Restaurare e rinforzare gli edifici adoperando cemento? … No, grazie! Ecco i perché
Il cemento è un pessimo materiale per il restauro, chi lo ha inventato non poteva conoscere i suoi effetti collaterali nel medio-lungo termine, tuttavia la Carta di Atene del '31 ne impose l’utilizzo, insieme a quello dei materiali sperimentali, nel restauro dei monumenti. Il motivo era che tali nuovi materiali erano creduti più resistenti, ma soprattutto consentivano di riconoscere l'antico dal nuovo.
Prima di addentrarmi in discorsi chimici – ovviamente semplificati per essere accessibili a chiunque – voglio ricordare un dato fisico, ben noto sin dagli albori di questo materiale, che riguarda il suo peso rapportato a quello delle murature tradizionali.
Mentre una muratura tradizionale pesa in media 1700-1800 Kg/m3, una muratura in cemento armato ne pesa 2500! Va da sé che, se una muratura venne dimensionata (anche gli antichi facevano le loro valutazioni, pur su basi geometriche e proporzionali) per reggere un solaio ligneo, il cui peso va dai 32 ai 50 kg/m2, è ben difficile che oggi possa reggere un solaio latero-cementizio, il cui peso oscilla tra i 250 e i 300 kg/m2!
Gli edifici in muratura e travi in legno, se ben costruiti, si danneggiano, eventualmente crollano, ma non ammazzano, perché il loro crollo avviene per fasi, durante le quali le strutture tendono a trovare una nuova “stabilità temporanea” che lascia molte più possibilità di sopravvivenza rispetto a dei solai monolitici che cadono su se stessi schiacciando uniformemente tutto quel che c’è di sotto.
Il cemento si ottiene per cottura di marne, oppure di miscele artificiali di calcare e argilla. La caratteristica fondamentale del prodotto di cottura (clinker) è che – a differenza delle calci idrauliche – la calce vi è interamente combinata come silicati, alluminati e ferriti di calcio. Il meccanismo di indurimento di questo legante riguarda pertanto sostanzialmente l’idratazione dei composti formantisi durante la cottura.
Per prevenire fenomeni indesiderati in fase di esercizio, dei quali dirò, occorre controllare molteplici parametri (modulo idraulico, modulo silicico, modulo dei fondenti e modulo calcareo) che potrebbero inficiare la qualità del prodotto finale.
In particolare, se il livello ammissibile di “calce libera” venisse superato, si potrebbero avere seri problemi, mentre se risultasse inferiore al minimo, il cemento si polverizzerebbe spontaneamente all’aria!
Durante la cottura, la calce che si forma dalla dissociazione termica del carbonato di calcio (CaCO3) reagisce con l’allumina e con l’ossido ferrico; la parte residua (calce restante) si combina chimicamente con la silice per formare silcato bicalcico (2 CaO SiO2) e silcato tricalcico (3 CaO SiO2): questi due silicati sono i più attivi costituenti idraulici del cemento.
Il silicato tricalcico, nella sua reazione con l’acqua d’impasto, sviluppa un’elevata quantità di calore (che nelle murature antiche è assai pericolosa), e presenta un’accentuata attitudine al ritiro, accompagnata da un’elevata velocità di indurimento: quest’ultima proprietà è importante ai fini della resistenza alle brevi stagionature. Esso perciò si tiene abbondante nei cementi (supercementi) che devono servire per strutture non molto spesse da disarmarsi rapidamente. Dal punto di vista chimico le sue proprietà, come vedremo, sono poco soddisfacenti. In ogni modo questa velocità fa sì che molte imprese usino questo tipo di cementi per velocizzare il lavoro.
Il silicato bicalcico, invece, sviluppa pochissimo calore durante la reazione con l’acqua, ha scarsa attitudine al ritiro, ed ovviamente una lenta velocità di indurimento: affinché raggiunga una resistenza meccanica accettabile occorrono mesi, anche se la resistenza finale è simile a quella del silicato tricalcico. È ovvio che questo tipo di cemento, nella società del mordi e fuggi non nutra le simpatie delle imprese che vogliono accelerare i cantieri. In ogni modo, considerato che il silicato bicalcico è il costituente che consente l’aumento della resistenza meccanica alle lunghe stagionature, esso viene mantenuto abbondante nei cementi utilizzati per costruzioni di grosso spessore, e per quelli che devono avere una certa resistenza chimica.
Tuttavia, nei corsi di Tecnologia dei Materiali da Costruzione, (il mio professore è stato Francesco Romanelli, già collaboratore del grande Pier Luigi Nervi) ci insegnano che “con la sostituzione del silicato tricalcico con il silicato bicalcico, entro i limiti accettabili per le resistenze meccaniche, si realizza il duplice vantaggio di ridurre il calore d’idratazione e migliorare la resistenza chimica del materiale. I cementi ricchi in C3S sviluppano, infatti, una notevole quantità di calce di idrolisi (cementi ad alta basicità) che, dal punto di vista chimico, rappresenta il “tallone di Achille” del cemento”.
Ci si dovrebbe dilungare nel raccontare i problemi collegati con la necessità di accelerare i tempi di realizzazione cercando di mantenere delle buone resistenze meccaniche, cosa che però comporta grossi problemi di fessurazioni, dovute al rapido ritiro, e con esse un indebolimento strutturale e un’elevata permeabilità. Sarebbe utile far conoscere i vari “trucchi del mestiere” escogitati dai costruttori per ottenere questi obiettivi; trucchi che però non portano a nulla di buono: per esempio, per ripristinare le caratteristiche di lavorabilità del cemento, si usa aggiungere acqua in betoniera, ma questo trucco diminuisce gravemente la resistenza meccanica ed aumenta la permeabilità del manufatto indurito.
Ciò che non viene raccontato del cemento è il perché esso tenda a deteriorarsi in tempi molto brevi se raffrontati a quelli delle malte tradizionali.
La causa di disgregazione di una pasta di cemento può essere provocata da cause sia interne che esterne: nel primo caso la disgregazione si produce in tutta la massa, che si altera profondamente in tutte le sue parti; nel secondo l’alterazione si manifesta inizialmente solo in alcuni punti della superficie, e procede poi verso l’interno. La calce libera (CaO) e la magnesia (MgO), ed un eventuale eccesso di gesso, sono le cause intrinseche di alterazione. Si noti che, anche piccoli tenori di calce non combinata chimicamente nei clinker creano enormi problemi. Questa calce, cotta all’elevata temperatura del cemento, risulta bruciata per cui si idrata molto lentamente, quando il cemento ha già fatto presa, provocando rigonfiamenti e screpolature: il cemento risulta espansivo a causa dell’espansione della calce.
La magnesia presenta fenomeni simili a quelli della calce, ovvero l’espansione si manifesta in tempi molto lunghi, anche 1 – 2 anni dopo la messa in opera.
Nel caso del gesso in eccedenza, si hanno forti fenomeni di espansione a causa della formazione di solfoalluminato di calcio successivamente alla presa, che provoca un forte aumento di volume.
Altre volte, il deterioramento è causato dall’impurità del cemento che presenta degli alcali.
Ovviamente, occorre prendere in considerazione anche le ragioni del deterioramento causato da un attacco esterno, cosa anche questa ben nota, ragion per cui risulta ridicolo che si sia teorizzato, e si continui ad adoperare il cemento a faccia vista della cosiddetta “architettura brutalista”.
Una certa influenza sul deterioramento è data da fattori di origine fisica (calore eccessivo, gelo) e chimica (azioni di acque aggressive, capaci di provocare fenomeni di dilavamento e di rigonfiamento) … non volendo annoiare con discorsi troppo tecnici, lascio al lettore la possibilità di comprendere da sé per quale motivo la soprintendenza e i politici, per il crollo della Schola Armaturarum di Pompei abbiano accusato le piogge!
Finora ho descritto il problema limitandomi al cemento; il discorso però andrebbe fatto per quello che è il materiale che viene adoperato nei cantieri: il calcestruzzo armato, ovvero un composto di cemento e inerti, rinforzato con barre di acciaio, cui spesso e volentieri vengono addizionate sostanze chimiche, (molto tossiche), che servono a ritardare o accelerare il processo di presa e indurimento e/o altro.
Ovviamente, per renderle solidali con le preesistenze, le strutture in c.a. vengono opportunamente “ammorsate” nelle murature originarie, ragion per cui, nel caso dell’uso del c.a. nei cantieri di restauro, risulta necessario fare delle piccole (o grandi) demolizioni per realizzare gli ancoraggi tra le vecchie e le nuove strutture. C’è da dire che, mentre le strutture antiche hanno la capacità di adattarsi gradualmente ai vari cedimenti, assestandosi e mai collassando, le strutture in c.a. risultano estremamente rigide e indipendenti dalle strutture originarie, sicché, come si è visto negli ultimi terremoti, in caso di sisma queste strutture tendono a partire per la tangente, schiantando a terra ciò che le sosteneva.
Non occorre avere una laurea in chimica per sapere che il carbonato di calcio, CaCO3, è il peggior nemico del ferro. Va da sé che qualche problema all’interno di una struttura in c.a. poteva essere immaginato da chi la teorizzò.
Per quanto riguarda il calcestruzzo, un problema molto serio è quello della carbonatazione, il fenomeno consiste nella reazione dell’anidride carbonica CO2 dell’aria con l’idrossido di calcio Ca(OH)2 della pasta di cemento, con la formazione di CaCO3. In determinate condizioni tale processo si manifesta con una diminuzione di volume. L’influenza della carbonatazione non è però, si badi bene, limitata al ritiro. Essa ha infatti notevoli conseguenze per quanto riguarda la corrosione delle armature in acciaio. Infatti nelle zone carbonatate il calcestruzzo non è più alcalino, o lo è poco, e quindi non è più sufficiente ad assicurare la passività dell’acciaio. Pertanto, ai fini della durevolezza, si richiede che il copriferro esposto all’aria risulti di spessore adeguato, e l’impasto abbia bassa porosità, ma spesso e volentieri chi costruisce non segue tali precauzioni.
Vanno considerati poi gli effetti collaterali dell’acqua sul calcestruzzo.
Quando una struttura di calcestruzzo è in contatto con acqua o altri liquidi, le cause di degradazione possono essere suddivise in cause di natura chimica, fisica o meccanica. Le prime ovviamente sono le più importanti.
I tipi più comuni di agenti chimici aggressivi naturali sono i sali solfatici, quelli magnesiaci, le acque ricche in anidride carbonica, le acque pure e i cloruri; l'azione corrosiva di questi ultimi riguarda più i ferri del calcestruzzo armato che non il calcestruzzo stesso. Sono esclusi da queste considerazioni i liquidi di scarico industriale, acidi alcalini o contenenti composti organici e inorganici, i quali per la loro azione specifica nei confronti del calcestruzzo andrebbero considerati caso per caso.
L'azione di questi agenti chimici si esplica sostanzialmente in tre modi:
l) per solubilizzazione della calce d'idrolisi (dilavamento);
2) per trasformazione dell'alluminato tricalcico ad opera dei solfati in un prodotto di volume maggiore, il solfoalluminato di calcio, da cui deriva la disgregazione della massa;
3) per attacco dell'idrossido e dei silicati di calcio da parte dei sali di magnesio, con formazione di prodotti ancora espansivi o incoerenti.
L'azione dei sali di magnesio è diversa a seconda del tipo di sale; per es.: il solfato di magnesio attacca l'alluminato tricalcico con formazione del solfoalluminato, ma questo, in presenza di solfato di magnesio, forma solfato di calcio, allumina idrata e idrossido di magnesio. Il solfato di magnesio attacca anche i silicati con formazione di solfato di calcio, idrossido di magnesio e silice. La silice e l'idrossido di magnesio tendono ad ostruire i pori, ma col tempo formano silicato di magnesio idrato privo di coesione. In modo analogo si comporta il cloruro di magnesio.
In aggiunta ai fenomeni descritti, e ormai ben noti, ce n’è un altro silente e terribilmente dannoso per il calcestruzzo armato, si tratta di un fenomeno quasi sconosciuto e poco studiato: l’inquinamento acustico.
La costante vibrazione delle strutture in c.a. sollecitate dal rumore crea un lento ed inarrestabile processo disgregativo all’interno delle strutture che, nel tempo, tendono addirittura a perdere del tutto le loro capacità meccaniche.
Concludo questo paragrafo ricordando che, peggio del calcestruzzo si comportano i materiali chimici adoperati nei cantieri di restauro, per esempio le resine epossidiche le quali, benché finalmente bandite, continuano imperterrite ad essere adoperate dai restauratori senza cultura.
Se non col cemento, come?
Come si è detto, ancora una volta possiamo trarre beneficio dall’esistenza di un modello del passato che si è dimostrato validissimo.
Il 5 febbraio 1783, novant’anni dopo il drammatico terremoto che rase al suolo l’angolo sudorientale della Sicilia, un nuovo sisma di proporzioni impressionanti devastò la Calabria borbonica, provocando oltre 50000 vittime.
In tale occasione venne elaborato un vero e proprio Manuale per la Costruzione Antisismica, il primo in Europa, basato sulla conoscenza delle tecniche più antiche. Evidentemente, nonostante l’età dei lumi, nessuno ebbe la presunzione di far derivare i propri meriti da se stesso, né si sentì la necessità di “essere modernamente proiettati nel futuro” per poter dimostrare di essere al passo coi tempi. Semmai si operò secondo quel concetto di società evoluta che, in quegli stessi anni, andava descrivendo Edmund Burke e che ho citato in precedenza.
La lezione urbanistica della ricostruzione siciliana aveva fatto scuola, sicché anche in questo caso si seppe operare nel rispetto della sicurezza, ma anche del carattere e della storia dei luoghi. Le norme sulle altezze degli edifici e sul dimensionamento di strade e piazze, codificate per la ricostruzione di Catania prima (eruzione del 1669) e del Val di Noto (1693) poi, trovarono applicazione nelle ricostruzioni calabresi, come per esempio si può vedere nel Piano per la Ricostruzione di Palmi.
La cosa più interessante del Manuale antisismico fu comunque la concezione strutturale degli edifici, la cosiddetta “casa baraccata borbonica”, un modello strutturale basato sull’antica tecnica dell’opus craticium romano (opera a graticcio) che, pur con murature relativamente leggere, consentiva agli edifici di collaborare in tutte le loro parti ai movimenti tellurici, garantendo stabilità e sicurezza.
L’idea venne all’ing. Francesco de la Vega studiando gli edifici che avevano resistito ai terremoti, per esempio il Palazzo del Conte Nocera a Filogaso (Vibo Valentia) che, costruito qualche anno prima del sisma, basandosi sull’antica tecnica visibile negli scavi di Ercolano, fu l’unico edificio di quella cittadina a rimanere in piedi dopo il devastante sisma.
La medesima tecnica, con piccole differenziazioni, si ritrova nella “gaiola pombalina” portoghese, nelle “himis” turche e nelle case al confine tra Armenia e Iran che continuano a dimostrare la loro incredibile resistenza a terremoti di violenza estrema come quello del 1999.
Anche l’edilizia veneziana, dovendo mostrarsi leggera ed elastica per poter rispondere alle continue ondulazioni del suolo su cui sorge, presenta una struttura – nascosta dall’intonaco – a graticcio, con le cosiddette “reme” che servono a distribuire equamente i carichi lungo tutte le pareti dell’edificio rendendolo così stabile.
Purtroppo qui da noi in Italia, patria dell’opus craticium, continuiamo ad insegnare nelle università solo ed esclusivamente le strutture in cemento armato e/o in acciaio (queste ultime certamente più valide del primo) piuttosto che sistemi strutturali come quello della casa baraccata borbonica.
Sarebbe invece importantissimo rendere obbligatorio lo studio di quel Manuale Borbonico, specie perché nel 2013, in occasione del Convegno H.Ea.R.T, il CNR italiano e un team internazionale di esperti della materia, dopo aver costruito una parete rinforzata con una intelaiatura lignea basata sul modello settecentesco, l’ha sottoposta ad una serie di test sismici decretando questa tecnologia come la migliore attualmente conosciuta, proponendo di adoperarla, magari con dettagli costruttivi moderni da valutare, a tutte le nuove costruzioni.
Le tecniche antiche adoperate in area sismica dalle quali avremmo tanto da imparare non sono però solo quelle della “casa baraccata”. Infatti, come egregiamente riportato nel Manuale per il Restauro del Centro Storico di Palermo dal compianto Prof. Marconi e dai suoi collaboratori, in passato chi costruiva (o rinforzava) le case in muratura, realizzava dei sistemi di incatenamento (a vista o nascosti) delle pareti e dei solai che hanno consentito agli edifici storici di giungere fino a noi in perfetto stato di conservazione.
Quel sistema di incatenamento con tiranti ortogonali e/o angolari, in ferro e/o legno, singoli o doppi e con fermagli semplici o a piastra, è tutt’oggi riscontrabile in tantissimi edifici che hanno resistito al terremoto di L’Aquila, oltre che in area siciliana e borbonica più in generale.
In tutta onestà dobbiamo riconoscere che la tecnica costruttiva tradizionale non sempre è perfetta, la sua qualità e resistenza dipende infatti dalla perizia di chi l’abbia realizzata. Molte delle case crollate negli eventi sismici recenti, come si è detto, son venute giù per essere state sovraccaricate e/o irrigidite con moderni stupidi interventi, tuttavia bisogna registrare anche il caso dei tanti edifici nei quali – per ragioni di economia o fretta – è stata impiegata una malta di pessima qualità.
Questo è per esempio il caso degli edifici abruzzesi per i quali, in occasione della ricostruzione successiva al terremoto del 1703, ispirandosi al sistema in voga in ambiente romano seicentesco, venne adoperato il fango come legante, ignorando la differenza tra un fango argilloso con potere legante come quello romano ed un fango vegetale senza alcuna capacità legante come quello aquilano.
Di fatto, però, le nostre città ci mostrano come l’edilizia realizzata dall’epoca comunale ai primi del Novecento sia passata indenne alle violentissime sollecitazioni che ha subito nel corso dei secoli, dimostrando la sua assoluta stabilità e sicurezza. Il territorio italiano è ricco di edifici snellissimi e altissimi, come le torri bolognesi e senesi, torri che pendono a causa di cedimenti del terreno (Pisa, Bologna o Venezia per esempio) ma che, grazie alla perizia costruttiva, nonostante sembrino sfidare tutte le leggi della statica, resistono e mostrano tutta la loro bellezza.
Demonizzare un sistema costruttivo testato dai secoli non ha alcun senso, se non quello di favorire l’industria edilizia moderna che ha distrutto l’artigianato locale e il carattere dei luoghi.