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Vitruvio nostro padre architetto

Venerdì 07 Agosto 2015 09:51  |  Architettura, Editoriali, Flash  |  

di Guglielmo Minervino

Riproponiamo un articolo di Vittorio Gregotti in merito al De Architettura di Vitruvio, opera che già al momento della sua scrittura (I sec a.c) descriveva le basi teoriche dell'Architettura occidentale, frutto di secoli di tradizione, innovazione  e verifica pratica. Consigliamo la lettura dell'opera dove, fin dal primo libro, s'illustra l'Architettura in quanto scienza e se ne delinea la figura dell'Architetto nella sua essenza profonda. Alla luce odierna di una visione olistica dell'arte architettonica il De Architettura risulta acora un testo fondamentale per comprendere il mondo nel quale i giovani architetti contemporani si troveranno ad operare.


di Vittorio Gregotti
La Repubblica, 17 dicembre 1997

Il trattato De Architectura di Vitruvio, scritto tra il 20 ed il 30 a.C., si sa, è l’unica trattazione teorico-pratica che ci sia giunta dall’antichità greco-romana.

Nonostante sia stato trasmesso senza illustrazioni (e le numerosissime edizioni illustrate che si sono susseguite nei secoli siano altrettante interpretazioni storiche del testo), il trattato di Vitruvio è stato capostipite ed elemento di riferimento per quasi tutti i trattati di architettura europei per più di un millennio: dall’Alberti a Philibert de l’Orme, dal Serlio a Palladio, da Francesco di Giorgio al Milizia. L’edizione monumentale (1500 pagine, probabilmente la prima integrale) che l’editore Einaudi pubblica è curata da Pierre Gros, uno specialista di Archeologia Romana che insegna all’università di Aix-en-Provence e che, nell’introduzione, fornisce con cura filologica un appassionante quadro dello strato sociale di appartenenza dell’autore, del pubblico (soprattutto di funzionari statali) a cui si rivolge il contenuto del trattato, dell’ambiente culturale in cui si muoveva Vitruvio, delle sue fonti di ispirazione (soprattutto ellenistiche) e dell’interpretazione del significato di alcuni dei termini da lui usati, primo fra tutti quello di simmetria (che Vitruvio traduce con il termine commodulatio in latino) ed infine del linguaggio letterario usato dall’autore. 
Ma vi sono, io credo, soprattutto due domande che la pubblicazione del testo vitruviano impone alla cultura architettonica dei nostri anni: perché la tradizione del trattato di architettura si sia interrotta e che cosa oggi la sostituisca in quanto riflessione capace di restituire una sintesi dei fondamenti teorici e delle condizioni della pratica artistica dell’architettura. Naturalmente il trattato non è l’unico modo in cui il pensiero progettuale è stato a noi tramandato. Vi è il dover essere che proviene dalla tradizione del pensiero utopico, la forma apodittica del “manifesto” dell’avanguardia ed infine la tradizione dei consigli, delle esortazioni, dei suggerimenti nelle forme più diverse ma, secondo me, di grande interesse, costituite, per esempio, dalle relazioni scritte per risolvere uno specifico problema, relazioni che talvolta assumono valore interpretativo generale (il dibattito intorno al tiburio del Duomo di Milano [n.d.r. si vedano gli scritti di Leonardo, Bramante e Francesco di Giorgio] che si è svolto alla fine del XIV secolo, per esempio) o per dare suggerimenti costruttivi ed estetici, come nel caso dei celebri fogli di Villard de Honnecourt, od “opinioni” come quella di Fra Giocondo per la chiesa di S. Pietro, o pensieri generali sull’architettura secondo, ad esempio, lo stile poetico delle contribution di Auguste Perret. Vi è però una nutrita quantità di ragioni che rendono molto problematico nei nostri anni un discorso sul farsi dell’architettura che possegga le capacità di sintesi, di indirizzo, di riflessioni sui fondamenti e sul loro effetto sulla pratica che sono caratteristici della tradizione del trattato.

Innanzitutto proprio il progredire della critica e della storia dell’architettura come disciplina indipendente. Il trattato è per sua natura opera di riflessione condotta da chi, come architetto, è protagonista del progetto e della sua costruzione e che quindi deve confrontare la speciale relazione che egli propone, per mezzo del suo lavoro, tra esperienza e teoria con chi elabora professionalmente teorie ed interpretazioni. In secondo luogo il territorio dell’architettura si è fatto assai complesso ed articolato comprendendo attività che vanno dal planning al disegno del prodotto industriale, dall’ecologia ambientale alla grafica, dai problemi di traffico e trasporto al disegno urbano. E ciò ha anche dato luogo a vere e proprie specializzazioni professionali che propongono sull’architettura ottiche anche molto differenziate. Persino l’insegnamento dell’architettura è divenuto sovente una professione separata, così come le riviste di architettura sono fatte oggi da giornalisti e non da architetti e l’influenza dei media pesa in modo sempre più forte (ed approssimativo) sulle opinioni in merito all’architettura. È vero che anche gli architetti dell’antichità e del rinascimento erano volta a volta nello stesso tempo idraulici, scultori, pittori, meccanici, agrimensori, ecc. ecc., ma ovviamente i campi dei saperi specialistici erano più conoscibili non solo nelle tecniche ma nei fondamenti fisico-matematici e geometrici, mentre le collaborazioni specialistiche che corrispondono alle operazioni architettoniche complesse di oggi offrono alla discussione progettuale la parte terminale, operativa delle diverse discipline e non certo i loro fondamenti. Persino l’utilità e validità del “manuale” (figlio dell’Encyclopedie, cioè della volontà di mettere a disposizione i fondamenti razionali dei mestieri) che nel XIX secolo ha sostituito sovente la pratica del trattato è oggi messa in crisi sia dalla perdita di stabilità delle tipologie edilizie, sia dalla quantità enorme di prodotti e di semilavorati messi a disposizione dal mercato (e da esso con grande rapidità continuamente sostituiti), sia infine dalla necessità di proporre sistemi connessi alla progettazione intesa come produzione dell’edilizia in quanto bene economico.

Si costituiscono così intorno all’architettura insiemi di culture scarsamente comunicabili fra loro. Curiosamente poi questa esigenza finisce con il coincidere con lo sforzo di relegare la funzione dell’architetto nella produzione del ciclo edilizio a compiti puramente estetico-decorativi (o, come si dice oggi, “di immagine”) sottraendolo al suo universo tecnico e quindi rendendo ancor più difficile il compito di un discorso unitario sul farsi dell’architettura. A questo proposito l’irruzione della fotografia e del video nella comunicazione ha giocato un ruolo importante anche nel discorso del farsi dell’architettura fortemente appoggiato, nella tradizione del trattato, alla dimostrativa illustrazione dei progetti, in generale autografi. Le quattro motivazioni che stanno alla base di ogni discorso su tale farsi (come possiamo oggi definire il contenuto del trattato), e cioè la verifica della coerenza tra teoria e pratica, la trasmissione dell’esperienza, la battaglia delle idee e dei punti di vista sulla disciplina ed il chiarimento delle condizioni di produzione dell’architettura, fanno così sempre più fatica a trovare un luogo unitario di espressione e si affidano sovente a trasposizioni frammentarie e spesso abusive di pensieri teorici provenienti da altre discipline scientificamente più organizzate, così che gli scritti architettonici con aspirazioni teoriche appaiono molto spesso come sottoprodotti delle riflessioni filosofiche o scientifiche con la relativa trasposizione abusiva dei linguaggi relativi. Anche questo è nella storia sovente avvenuto (chi non ricorda il celebre libro di Erwin Panowsky sulle relazioni tra l’architettura gotica ed il pensiero della Scolastica), ma ha assunto negli ultimi anni una meccanicità ed una mutevolezza accelerata che giustificano molti sospetti di debolezza nei confronti dell’attuale pensiero specifico che sostiene il nostro mestiere e della sua capacità di proporre una distanza critica rispetto al mondo. Ma chi volesse oggi progettare un trattato si troverebbe di fronte ad una questione ancora più complessa, quella di decidere se la ricerca di una qualche definizione di un linguaggio universale dell’architettura, come lo è stato per secoli il linguaggio classico dell’architettura o come è divenuto, contro ogni sua premessa, lo stile della modernità, sia un fondamento importante o se nel nostro tempo esso abbia perduto ogni utilità. L’oscillazione tra la verità del caso specifico, i fondamenti stessi dell’essenza dell’architettura ed il suo discioglimento dentro alla mediatizzazione globale della comunicazione visiva costruiscono le vere contraddizioni che rendono oggi difficile ogni progetto di trattato. Difficile ma forse proprio per questo particolarmente interessante.

fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/12/17/vitruvio-nostro-padre-architetto.html

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