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Verso quale sviluppo territoriale?

Venerdì 14 Marzo 2014 23:00  |  Strategia, sviluppo  |  

di Stefano Serafini

Si parla molto di innovazione e nuovi modelli di sviluppo, in Italia, soprattutto ora che alla diffusa inquietudine morale verso la narrazione consumistica e iperproduttivistica ha fatto seguito il fallimento materiale del vecchio sistema. Senza contare i danni all’ambiente, dopo anni di annunci ottimistici riguardo alla fine della crisi economica più devastante dell'era moderna, persino il mondo finanziario statunitense comincia ad ammettere la drammatica instabilità strutturale della nostra economia, costretta ad espandersi indefinitamente: per dirla con Larry Summers, si cresce solo con le bolle; ma le bolle periodicamente esplodono producendo rovine che sono innanzitutto sociali, culturali, ecologiche in senso ampio, quando non addirittura belliche. È la nostra cronaca attuale di aziende che chiudono, disoccupazione, fine dichiarata del welfare, rigidità valutaria, alti profitti finanziari rastremati, e tensioni militari internazionali al confine e nel cuore stesso d'Europa.

In tale contesto la green economy viene spesso citata come l'arca di Noè dell'economia capitalistica, nella quale troverebbero rifugio anche i valori di sinistra come l'egualitarismo, l'ecologismo, e qualche scampolo di socialismo arresosi alla "fine della storia", cioè all'accettazione del trionfo delle leggi di mercato come comun denominatore della democrazia e del vivere civile. L'idea è vecchia, ed è stata brillantemente esposta e destrutturata già quarant'anni fa da Baudrillard, nel suo L'échange symbolique et la mort (1976), dove l'acuto filosofo sembra preconizzare fin nei dettagli il programma economico del primo governo Obama. Per il mercato, dice Baudrillard (e il pensiero non può non correre alla Terra dei Fuochi), l'ecologia è il migliore degli affari, poiché impone un ciclo senza termine, e dunque infinitamente remunerativo, di distruzione e riparazione dell'ambiente. Peccato però che il pianeta non sia un'astrazione, ma un sistema fisico finito la cui resilienza ha un limite, a differenza della costante accelerazione di cui pare aver bisogno, per definizione, l’economia attuale. Non occorre molta filosofia, insomma, per comprendere che il concetto di "sviluppo sostenibile" è un ossimoro, una bugia che copre la contraddizione intrinseca al capitalismo verde.

La biourbanistica studia il divario culturale fra modelli socio-economici più o meno illusori e la concretezza quotidiana; fra la scarsità di prospettive teoriche, che si impone come vita miserabile alle persone, e di contro l'estrema ricchezza organica della quale si nutre, o potrebbe, la vita nei diversi Sud del mondo, nel nostro Sud, nelle periferie urbane e ai margini provinciali. Il "buen vivir" latino-americano, l'architettura autocostruita, le antiche conoscenze locali che tornano ad esprimersi in azioni profondamente colte di nuove convivenze, o la vitalizzazione di spazi abbandonati sono alcuni dei fenomeni che accennano all'esistenza di percorsi naturali della nostra civiltà verso modelli efficaci paralleli alla rovina dell'Illuminismo. Non alternativi, o almeno non ancora, ma coesistenti come le erbe nelle strade di periferia e la xenofauna che accompagna con nostra sottile sorpresa la desolazione metropolitana.

Come comportarsi allora davanti al declino economico? Rifiutare la pillola antidolorifica dello “sviluppo verde”, perché di fatto funzionale al consenso verso ciò che ci distrugge? Se Berdiaev aveva ragione, neanche la rivoluzione è un’opzione: forza della natura delle cose superiore agli attori umani, essa finisce col confermare le strutture originarie. Un esempio ci è stato fornito dal capitalismo di stato sovietico: la risposta rivoluzionaria deriva dalla medesima dialettica illuministica di controllo e potenza tecnica da cui sorge il capitalismo. Majakovskij è stato forse l’interprete più generoso di tale dolorosa consapevolezza storica, una consapevolezza urbana, metropolitana.

Forse allora i processi di cambiamento intenzionali potrebbero imparare dallo scorrere naturale delle cose, dall’organizzarsi dei corpi viventi. In natura avvengono cambiamenti, ma anche quelli repentini hanno uno svolgimento estraneo alla violenza aprioristica della cultura industriale, perché derivano dal libero corso di flussi sistemici che non sono mai isolati, ma anzi sanciscono l’indeterminatezza dei confini e la mutua influenza come condizione normale di ciò che funziona.

Un nuovo atteggiamento potrebbe così consistere nel puntare maggiormente sul riconoscimento dell’ordine aperto, incarnato nel sistema autonomo da migliorare, piuttosto che sui mezzi o modi tecnici costruiti per modificarlo. La rimodulazione consonante è più efficace della ristrutturazione a partire da un progettato estraneo al contesto. L’imposizione eteronoma implica uno spreco innaturale di energia, che a sua volta presuppone la vecchia attitudine a pretendere infinita la disponibilità delle risorse, oltre a denunciare una volontà di potenza che in ultimo è fine a se stessa e alla propria riproduzione.

La logica sistemica ci porta di contro a rivalutare connessioni, vuoti, limiti e desideri come consustanziali alla vita. La vita è una proprietà emergente da relazioni dinamiche, più che da mere strutture. Essa ci insegna a superare la convenzione secondo cui l’economia (la società, la politica, la città) consisterebbe in una macchina fine a se stessa. La visione da statica si fa fluida, la “crescita” viene sostituita dallo “sviluppo” inteso però come «conseguimento di significativi miglioramenti nell’impiego delle capacità incorporate» (Golinelli, L’approccio sistemico al governo dell’impresa, vol. I, II Ed., Cedam, Padova, 2005, pp. 488-489, cit. in Sergio Barile, “L’approccio sistemico-vitale per lo sviluppo del territorio”, Sinergie, 84/2011 p. 68), il che sottende il recupero di una centratura teleonomica sull'essere umano.

Come nel design oggettuale, ad es. ispirato alla biofilia, alla biomimesi, alla sostenibilità algoritmica, per i biourbanisti suona naturale applicare tali concetti anche alla progettazione urbana di servizi e di piattaforme immateriali, integrandoli all'approccio maieutico del design partecipato e dell'urbanistica peer-to-peer. Le categorie di “fine”, “consonanza”, “risonanza”, “sistema” e “struttura” utilizzate dalla scuola dell’Approccio Sistemico Vitale rappresentano un ottimo sfondo teorico per l’azione di sviluppo territoriale biourbanistico.

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