di Marcello Francolini
A Salerno si è tornati a parlare di megastrutture. Il caso specifico riguarda la nuova destinazione di Piazza della Concordia che dovrebbe praticamente scomparire sotto il peso del Mixed Use Tower progettato (per adesso è soltanto un rendering) dall’archistar Dante Benini. Con questa novità spettacolare si conferma la volontà di adoperare la città come una grande galleria d’arte a cielo aperto ove allestire una mostra permanente di scultura. Il titolo sarebbe “Forme Spurie: progetti architettonici altamente auto-significanti”.
Spurie mi sembra l’aggettivo adatto al fine di meglio intendere la volontà ricostruttiva intrapresa dall’amministrazione comunale. Il termine è da intendere nel suo significato anatomico di costole fluttuanti, ovvero architetture che servono a se stesse, che non si adagiano al tessuto urbano, ma che piuttosto piombano su di esso stravolgendo secondo un gusto individuale il vedere e l’abitare collettivi. Dalle pagine dei quotidiani di Salerno, qualche mese fa, in occasione della visita del noto critico d’arte Sgarbi, cercai di svelare (heideggerianamente) l’ideologia sottesa a tale “riqualificazione urbana”. Sollevai una querelle perché a Salerno è visibilissima la deriva scultorea dell’architettura contemporanea, il tentativo cioè di uniformare logotipicamente tutte le città del mondo, facendo così scomparire le particolarità geo-morfologiche dei luoghi.
A giudicare dai rendering del progetto di Benini, Piazza della Concordia ospiterà un’enorme costruzione di oltre trenta piani, rivestita di vetro incastonato di punti luce di swarovskiana memoria, i quali brilleranno al tramonto. Un enorme parallelepipedo con tanto di tetto-eliporto (quasi l’eliporto del Grand Hotel e l’aeroporto fossero insufficienti) ridisegnerà il waterfront salernitano, e l’imponenza della struttura imporrà la trasformazione dell’assetto viario e urbano circostante per 126mila metri quadrati.
Il progetto del Mixed Use Tower è una delle prime conquiste dell’anno della “corte comunale”; conquiste effettuate all’Expo Italia Real Estate di Milano lo scorso giugno, alle quali di certo seguiranno ulteriori colpi di scena visto che è stato presentato anche il progetto del Porticciolo di Pastena, la Litoranea Orientale, la Marina d’Arechi Salerno Port Village ed in più altri otto e più nuovi palazzi, fra i quali due torri distorte a ridosso della Cittadella giudiziaria.
In realtà, la mia posizione, vorrei evitare malintesi, non punta a una condanna globale dei grattacieli come tipologia edilizia. Il che sarebbe oggi, in un tempo di euforico culto per i grattacieli, un atteggiamento a dir poco stravagante. Ciò nondimeno, sono incline a pensare che una riflessione sul fenomeno sia oggi più che necessaria. Uno dei punti, a mio parere, concerne la questione dell’impatto ambientale, intendendo non soltanto quello fisico, ma anche quello visivo. Un aspetto quest’ultimo che è spesse volte sottovalutato. Una delle cause va ricercata nella evidente deriva scultorea dell’architettura, ossia la tendenza a rendere autonoma la forma degli edifici, a concepirli come pura sperimentazione artistica, appunto come delle sculture, indifferenti e talvolta addirittura provocatoriamente ostili, alla funzione che esse sarebbero chiamate ad accogliere. Fino al punto che, molto spesso, i vincoli funzionali si affrontano, quando le caratteristiche formali dell’edificio sono già definite, com’è avvenuto ed avviene per il Crescent.
Se l’architettura viene meno, e diventa una produzione massiccia di sculture monumentali al servizio del più spregiudicato show business, il profilo professionale dell’architetto diventa ambiguo. Negli anni sessanta, Bernard Rudofsky parlava di una “architettura senza architetti”. Alludeva al sottovalutato fenomeno dell’architettura anonima, dell’architettura senza autore. Esagerando un po’ le cose, ma non tanto, si potrebbe dire che stiamo entrando nell’era degli “architetti senza architettura”, come parrebbe nel caso della nostra città, dove archistar coltivano la pretesa, tutt’altro che modesta, di imporre a tutti i cittadini le loro personali (e discutibili) elucubrazioni formali. Elucubrazioni formali che alla scala dei modellini in plastica e alla matematizzazione visuale dei rendering possono parere suggestive, ma proiettate alla scala urbana dimostrano un’alterigia che urta la più elementare sensibilità democratica. Dunque possiamo soltanto aspettare (chissà quanto!) l’arrivo dell’ulteriore scultura. Dopo la Legolandia di Chipperfield, il Transatlantico di Pagliara, la Conchiglia di Hadid, Il Tempio di Bofil, ecco il Dongione di Benini. Tutte costruzioni a funzione simbolico-religiosa, destinate a celebrare il potere nelle sue più svariate articolazioni, di cui il Mixed Use Tower sembra il compimento più manifesto.
Parlando di ricostruzione della città, dobbiamo capire quale modello futuro di sviluppo stiamo indicando. Invece di preparare il nostro tessuto urbano ad esperienze di connettività e collettività, rinnovate dalla presa di coscienza che il mondo deve abbandonare la celebrazione del potere autarchico e del fenomeno della finanziarizzazione della vita quotidiana, qui si rischia di costruire dei templi che proprio quel mondo continuano a figurare. A chi spetta il diritto di decidere in materia di architettura? Come assicurare questo diritto alle persone cui esso spetta? Come farlo in un mondo che va verso una povertà crescente? Di fronte agli attuali problemi d’impoverimento e di esaurimento delle risorse diventa indispensabile un’architettura povera che riscopra i valori naturali e le tecniche compatibili con un modo di vita più sobrio.