di Stefano Serafini
Il paesaggio italiano è aggredito su due fianchi: dalla retorica sviluppista, e da quella apparentemente opposta degli ecologisti da business. Edificazioni oscene, privatizzazioni, strade e TAV da un lato; mostruose e inutili pale eoliche, velenosi mari di pannelli solari ed eco-retorica dall’altro. Di libero e umano pare restino quasi soltanto le vestigia dei centri storici, i piccoli e semiabbandonati paesi rurali a pianta medievale, segni di una civiltà fatta di pietre e azioni reali che non esiste più; un patrimonio della cui scomparsa si preoccupavano Guy Debord, Pier Paolo Pasolini, Antonio Cederna.
Non bisogna perciò sottovalutare la furia che cerca di distruggere o neutralizzare le libere memorie delle città italiane modificandone il corpo. La gara a erigere centri commerciali ovunque, a desertificare l’economia e dunque la vita urbana (ma un ministro dell’Ambiente proponeva recentemente di «portare la vita» nei Parchi nazionali costruendoveli anche lì, i centri commerciali…), va di pari passo con ciò che qualcuno ha definito «volontà dello sfregio»: edifici in stile archistar e ristrutturazioni decostruttiviste, incoerenti con il contesto, volute da amministratori ignoranti, ma con la soggezione verso la “Cultura” imposta dai media; chiese alla moda rifiutate dai fedeli, contro i quali vescovi arroganti e à la page cercano di imporle; il continuo sberleffo contro coloro che vorrebbero mantenere l’antica bellezza, additati come antiprogressisti.
La rovina del paesaggio è la sostituzione di un fenomeno d’immagine – un segno che parla di un’ossessione capitale, da alcuni ancora definita “capitalismo” – alla forma della realtà. In città se ne coglie subito l’essenza antipolitica e dunque antilibertaria, promossa da finanza e pubblici amministratori, a testimonio dell’integrazione completa della cosiddetta “politica” allo spettacolare. Il bene comune che si suicida in una pubblicità.
«Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Basta affacciarsi alla finestra: vedremo villette a schiera dove ieri c’erano dune, spiagge e pinete, vedremo mansarde malamente appollaiate su tetti un giorno armoniosi (...) boschi, prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all’invasione di mesti condomini (...) case incongrue e ‘palazzi’ senz’anima (...) colate di cemento. Villaggi che per secoli avevano saputo crescere conservando l’impronta di una cultura dell’abitare tanto più nobile quanto più povera sono sempre più spesso assediati da nuovi, anonimi quartieri, che cancellano dall’orizzonte campanili, torri, mura, alberi secolari. Sempre più spesso sono consegnate a speculatori senza scrupoli le città che furono per secoli il modello d’Europa per l’armonioso innestarsi di ogni nuovo edificio sul robusto, mirabile tessuto antico, per una cultura urbana diffusa che vietava non alla mano, ma al cuore e all’anima di deturparne la bellezza. Monti, campagne, marine sono sempre meno il tesoro e il respiro di tutti i cittadini (...)»
Tale l’inizio del libro di Salvatore Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2010, 326 pp.), documentato con dati numerosi e impressionanti. Fra questi, la grottesca cementificazione di oltre 3,5 milioni di ettari compiuta tra il 1990 e il 2005: un’area vasta quanto il Lazio e l’Abruzzo, a fronte d’un indice demografico che vede un nuovo nato ogni 47 vani costruiti. La localizzazione, oramai, di un quarto della popolazione e delle attività del Paese nella miseria dello sprawl, espansione disorganica che ha distrutto la forma urbana e avvelenato il paesaggio quotidiano di milioni di persone. L’aumento esponenziale delle zone franose a causa del soffocamento dei suoli: mezzo milione quelle censite soltanto nell’ultimo decennio, ove a dare il senso della tragedia non bastassero le cronache dei cosiddetti “disastri annunciati”, che puntualmente s’abbattono su paesi e città durante le stagioni piovose. Il pianto per i morti in Sardegna era stato annunciato, purtroppo.
Settis ci rammenta che bellezza e armonia del paesaggio italiano furono ritenute per secoli capaci di nutrire e affinare le intelligenze, costituendo così la ragione e la meta d’eccellenza del Grand Tour. Una modernità mentecatta ha aggredito tale tesoro universale, frutto e corpo della plurisecolare cultura nostra, attingendo negli ultimi anni di furia devastatrice a profondità inimmaginabili. Il Bel Paese è imbruttito da una scabbia di cemento, periferie informi, disarmonie geometriche e coloristiche. Inquinato e triste, restituisce a chi lo percorre alla ricerca dei resti della sua straordinaria grazia di un tempo, l’immagine squallida del pervertimento civile e morale d’Italia. Non è infatti casuale che l’idea stessa di bene comune scompaia insieme al paesaggio, perché essi si compenetrano e consustanziano. Ce lo spiega con un’immagine l’Autore: quella del gesto amoroso, un tempo normale, del passante contadino, il quale si soffermava lungo il cammino per aggiustare la pietra sconnessa di un muretto non suo.
I cittadini ricevono da tale perdita ferite alla salute fisica e mentale, alla libertà di goder la vita, alla propria stessa identità. Siamo sempre più esistenzialmente spaesati in una terra che cancella il proprio orizzonte di bellezza, perché era esso il volto della nostra cultura, e ogni giorno rievocava, rendendoci più veri, la nostra interiorità.
Le analisi del motivo del degrado fornite dall’Autore appellano responsabilità storiche, politiche, economiche, e persino i meccanismi paradossali di quella stessa burocrazia istituita a difesa del paesaggio, con una normativa di per sé all’avanguardia ma di fatto impotente a causa della frammentazione dei centri decisionali.
Settis tuttavia non si limita a denunciare, ma richiama alla riscossa. È vero, il Paese è avvelenato, spogliato e deturpato da individui senza scrupoli, e le recenti, sconvolgenti rivelazioni sulla Terra dei Fuochi – ma ancor più il segreto gettato su di esse per così tanti anni – lo gridano al deserto politico. Ma costoro comunque sono minoranza, e non dispongono di quell’onnipotenza che pur si sforzano di millantare. Anzi, più tetra si fa la loro opera distruttiva, più italiani avvertono l’esigenza di alzare la voce ed il braccio a testimonio che la solidarietà può rispondere all’offesa. Di contro alla sfiducia verso i gruppi d’interesse vestiti da partiti, la sottrazione del bene comune fa sì che i cittadini reagiscano, riscoprendo una responsabilità dimenticata contro la vigliaccheria e la mediocrità di chi uccide o tace. Sorgono così comitati spontanei che ostacolano molti tentativi di scempio. Le associazioni volontarie, come Italia Nostra, ottengono sovente egregi risultati contro speculazioni e svendite criminali, inquinatori e ladri di bellezza. La difesa del territorio segna insomma una nuova coscienza civica, che dal basso promuove la re-civilizzazione della nostra comunità nazionale.
Tra le soluzioni e le strategie partecipative che Settis suggerisce per riappropriarsi dell’Italia svenduta, una prende spunto dalla proposta di Luigi Rava (1909), affinché «ogni cittadino che gode dei diritti civili» e «ogni ente legalmente riconosciuto» dispongano della potestà di «agire in giudizio nell’interesse del patrimonio della Nazione contro i violatori della legge». La ripresa dello spirito di quel progetto legislativo oggi restituirebbe ai cittadini la facoltà di far valere, anche quando lo Stato tace e una politica schiavizzata a interessi economici più forti di lei si fa connivente, le ragioni del pubblico interesse e del bene di tutti, contro speculatori, amministratori corrotti, funzionari incapaci. Il patrimonio concreto e vivo, come la bellezza di una costa marina, o la memoria di un monumento antico, richiama una partecipazione senza mediazioni: una vera lotta di resistenza, in nome dei valori umani e civili più autentici, che poi trovano subito incarnazione nel grado di felicità e di bellezza della vita quotidiana delle persone. Questa è politica, dopo vent’anni di resa incondizionata alla narrazione astratta e totalizzante del mercato e dell’individualismo sviluppista che ci ha condotti a Fukushima – orribile catastrofe epocale, la quale condivide coi recenti crolli di alcuni nostri monumenti le medesime cause di fondo.
Il paesaggio, l’ambiente, è insieme presente, memoria e futuro; un bene fondamentale la cui qualità e preservazione indicano il livello di civiltà del Paese. E poiché un’esistenza vera e libera ci è dovuta, ma non senza una continua conquista, proteggerlo è insieme nostro dovere e diritto, quel “diritto di resistenza” che Giuseppe Dossetti desiderava finanche includere nella Carta Costituzionale.
L’invito di Settis a un’azione popolare di autodifesa indica così una strada per il recupero della vita schiacciata e offesa nel suo spazio, nell’aria, nel cibo, nell’intelligenza. È un invito a un’assunzione di responsabilità che può far tornare a sorridere il destino ingrigito di un Paese speciale, a far tornare la cultura di un popolo – intrappolata nelle TV – sulla sua terra.
L’Italia è infatti da sempre il luogo ove hanno avuto inizio gli esperimenti di quella cultura occidentale che, nel bene e nel male, ha conquistato il mondo. La sua condizione dice molto dello stato in cui versa quanto di più importante esiste sulla Terra: la bellezza, l’armonia, l’amore per la verità, la cooperazione e la giustizia che dovrebbero guidare le relazioni fra gli esseri umani e fra questi e il pianeta. Una nuova resistenza per lo spazio vivente d’Italia è dunque quanto dobbiamo a noi stessi e al mondo. Il nostro Paese è davvero bellissimo, non confondiamolo con i suoi assassini; restituiamogli voce e anima: la sua, la nostra.