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Il cadavere della rivoluzione non va in onda. Istanbul. Passione, Gioia, Furore

Domenica 15 Maggio 2016 06:00  |  Editoriali  |  

di Sara Bissen, Mauro Quagliati, Stefano Serafini

La mostra Istanbul. Passione, Gioia, Furore inaugurata lo scorso 11 dicembre 2015 al MAXXI di Roma e appena conclusa non ha purtroppo goduto dell’attenzione del pubblico e dei media.  Male, soprattutto in considerazione degli avvenimenti che stanno scuotendo le fondamenta civili e culturali della Turchia, con ripercussioni drammatiche non soltanto sulla sua regione d’influenza mediorientale, ma sull’intera geometria del potere globale dal quale il Paese è emerso come falda freatica dalla quale vomita ogni giorno maggiore e sistematico anti-umanismo. Stragi, torture, repressioni, relazioni con l’ISIS e atti di guerra della Turchia ci riguardano, perché i recenti accordi per deportarvi i rifugiati che non vogliamo vedere fra noi, infrangendo l’ipocrisia della narrativa ufficiale della UE, dimostrano che l’aperto neofascismo di Erdogan delinea l’ombra sinistra di ciò che la stessissima Europa è divenuta negli ultimi anni.

Certamente la mostra pecca di banalità, che in parte vorremmo attribuire all’occidentalismo pseudo-progressista (non più perdonabile, nemmeno come adolescenziale) del gruppo di artisti istanbulioti in essa rappresentati, e in parte alla fretta dei curatori (Hou Hanru, Ceren Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli) che si son trovati a rincorrere eventi più veloci di loro nel tentativo di offrire una prospettica serie di eventi “mediorientali” che giustappongono realtà distanti come Turchia, Iran e  Libano. Eppure vien da pensare che nonostante ciò l’importanza dell’evento sarebbe stata rimarcata solo qualche lustro fa da un contesto culturale italiano meno sciatto e lontano dalla realtà. Tutto quello che abbiamo avuto è stato invece il vuoto spinto del comunicato di presentazione di Giovanna Melandri (anelito di libertà e democrazia del popolo turco, ecc.) e il suo triste taglia-incolla da parte di cronisti sottopagati.

Noi abbiamo invece trovato la mostra interessante anche per la sua attenzione a un argomento chiave della fase capitalistica che stiamo attraversando nella corsa accelerata verso lo sfacelo: l’urbanistica, o meglio ciò che l’ha sostituita, cioè un ipersviluppo edilizio baudrillardiano, famelico, la cui prima attività consiste nel dare la caccia a occasioni di dismissioni e abbattimenti – solitamente edifici e interi quartieri storici – per poter moltiplicare lo spazio del costruibile con lo scopo dichiarato di creare numeri economici.

Diversi i lavori esposti che rappresentano il significato dell’incredibile esplosione edilizia di Istanbul, una inurbazione per certi versi simile a quella del primo industrialismo europeo e americano, ma essenzialmente diversa, poiché le masse rurali che la megalopoli richiama e tenta di ordinare hanno scala regional-globale e carattere post-industriale. 300.000 immigrati all’anno rifugiati da zone di guerra e tormento generate come onde dalla geopolitica a radice finanziaria che muove da Washington, Riad, Berlino e Shanghai – siriani, curdi, iracheni – sono una realtà impensabile per qualunque altra città, anche se enorme come Istanbul con i suoi 12 milioni di abitanti. Il movimento migratorio viene intercettato, gestito, usato dalla politica di Recep Tayyip Erdo?an e del suo progetto di uno sviluppo che porti la Turchia alla decima posizione fra le economie mondiali nell’anno fatidico che segnerà i 100 anni della fondazione della Repubblica, il 2023, con un bigottismo e un feticismo per il simbolo numerico che fanno intravedere come l’economia finanziaria sia l’ultima superstizione totemica.[1] Da qui la parossistica accelerazione nello sviluppo edilizio sotto forma dei grandi progetti dell'iniziativa statale-capitalista (TOKI – Toplu Konut Idaresi, Amministrazione per lo Sviluppo Abitativo) e una delle forme di utilità del processo migratorio per il sistema neoliberista che vede paesi depauperati ad hoc esportare a basso costo la loro ultima materia prima: gli schiavi, del lavoro prima, del consumo poi.

 

I giovani artisti turchi hanno anche compreso che il meccanismo auto-alimentantesi della crescita economica continua incontra sacche di resistenza nei margini e negli interstizi della società e degli spazi urbanizzati, pur se non un vero movimento politicamente organizzato di critica dell'assetto economico globalizzato. Questa considerazione acquista maggiore significato nella città che per antonomasia rappresenta un ponte tra Oriente e Occidente, Islam e laicismo, già centro del mondo e oggi frontiera della neo-guerra mondiale, capitale culturale inquieta di un Paese che afferma di desiderare di far parte dell’Unione Europea ma anche di volersene distanziare, mentre  pratica la pulizia etnica discendendo paradossalmente gli scalini della propria decadenza rispetto al suo passato imperiale quanto più intende mimarlo con la violenza.

L'autentica natura sociale della civiltà islamica intesa come “abbellimento del mondo” e che come tale, nel sogno di Mimar Sinan, “l’architetto saggio”, voleva le città costruite in legno affinché ogni generazione potesse avere la libertà di ricostruire a propria immagine l’ambiente in cui vivere sopravvive dunque, paradossalmente, non grazie al pugno di ferro del dominante, né al progressismo occidentale della democrazia dello sviluppo “sostenibile”, ma alla resistenza dei non-turchi, dei disprezzati neo-rurali, degli “innestati” d’Istanbul che rappresentano, ad ondate, i nuovi abitanti dei quartieri abbandonati, delle case vecchie, degli slum auto-costruiti.[2] Peccato però che una mostra così turca non abbia avuto il coraggio di dare spazio alla questione curda, se non in termini molto annacquati ed astratti. Distrazione?

Purtroppo la maliziosa narrativa mediatica globale col suo distanziamento romanticheggiante che ha dipinto le proteste di Gezi Park come una prima presa di coscienza di nuove identità culturali, ha infiltrato gli stessi protagonisti della rivolta. Lo si vede dalla nostalgica sezione ad esse dedicata. Nate dal rifiuto locale per il progetto edilizio che stava per stravolgere apertamente la fisionomia del cuore della città, a cosa si sono ridotte? A un’esperienza velleitaria da social network dove i ruderi delle barricate si trasformano in pezzi d'arte di strada, puntualmente rivomitate nell’esibizione romana, occasione di autocelebrazione emotiva di una generazione che si considera rivoluzionaria, mentre al governo cresce il fascismo.

L'ambizioso progetto di pianificazione sostenibile dei nuovi quartieri che porterà Istanbul a contare 22 milioni di abitanti entro il 2023 pubblicizza un'attenta distribuzione degli spazi urbanizzati, delle aree verdi, delle infrastrutture (il terzo ponte sullo stretto), che realizzerebbe sia una vivibilità dell'abitato, che la salvaguardia delle aree agricole, con l'ottimizzazione del bilancio delle risorse idriche di ogni distretto tra la parte urbana e rurale.  La migliore retorica della sinistra urbana ed ecologista mutuata dalla scaltrezza dei professionisti del design – un’ovvia menzogna – si fa sorridente e paternalistico processo di impossessamento di tutto lo spazio e di tutti i possibili antagonismi.

Ad es. ciò che il sistema presenta come riqualificazione urbana, risanamento delle periferie baraccate e delle aree depresse si legge come mortifera distruzione di tessuti sociali vivi, simboli, memorie, funzioni. Deportazioni, gentrificazione e mono-dimensionalità (anche economica, è soltanto questione di tempo) ne sono gli effetti. Laddove oggi abitano, in situazioni stratificate da decenni, minoranze etniche e ceti sociali emarginati, in ambienti urbani fisicamente degradati che comunque consentono vivacità esistenziale e fratellanza, un domani sorgeranno centri residenziali a cui avrà accesso una classe borghese senza più anima né solidarietà – l’aridità della reductio ad unum del denaro con l’orrore delle pulizie etnico-sociali che rimandano al passato della Turchia moderna e alle odierne atrocità di Cizre e Diyarbakir.

Il video progetto di Halil Alt?ndere, Wonderland, vede cantare il gruppo hip-hop Tahribad-? ?syan e il rapper Fuat Eregin: “il cadavere del mio quartiere davanti a me da cinque anni”. Si riferiscono al quartiere storico di Sulukule, uno dei rari esempi di ininterrotta residenza e cultura stabile Rom dai tempi dell’Impero d’Oriente, destinato a essere raso al suolo dallo Stato come sta avvenendo peraltro nella vicina Yedikule alle mura e agli orti urbani bizantini.[3] “Invece di rinstaurare il passato, TOKI, dovresti aggiustare il cervello dello stato. Hai creato un deserto, lo chiamano pace, demolisci gli edifici, ma non ci sono più le persone”.

I Rom che pestano il poliziotto che osa avventurarsi a Sulukule sono consapevoli di quanto sta accadendo, a differenza della maggioranza dei cittadini “istruiti” e integrati. Gli emarginati vedono la realtà che a noi sfugge, non seguono le strade di cemento ed asfalto del sistema che sono anche vie cognitive preformate, propaganda fatta struttura urbana.

Lo hanno appreso gli artisti Sinan Logie e Yoann Morvan che hanno dedicato l’estate 2013 a percorrere a piedi 300 km nella periferia di Istanbul, da ovest verso est, e hanno presentato nel loro Out of Istanbul? La testimonianza di prima mano della trasformazione radicale che sta avvenendo nella nuova periferia, e della quale pochissimi sono pienamente consapevoli. Vi è un conflitto che sta evidentemente portando le periferie al centro di un nuovo sistema di potere e sfruttamento fino al punto da far domandare ai due autori: “Come si fa a uscire da Istanbul?”. Il paradiso propagandato e perseguito dal sistema sembra una prigione in crescita infinita dalla quale è impossibile fuggire, come il capitalismo e la sua logica illuministica che tutto metabolizza, anche le opposizioni.

Istanze di uguaglianza sociale, domanda di democrazia e di sviluppo economico, non sono perciò che slogan di finta resistenza nel teatro del potere, mentre si va incrinando anche il tradizionale conflitto-equilibrio fra laicità e Islam che da un secolo caratterizza la Turchia.

Qui ci domandiamo ancora una volta perché nella mostra non sia stato dedicato spazio alla presenza interstiziale per eccellenza della società turca, cioè all’immigrazione in maggioranza rurale, e dunque non-urbana e non-sistemica, del popolo curdo, come anche dei profughi siriani. Se la resistenza vera è quella irriducibile, quella che non segue le strade di asfalto e non pronuncia retoriche ribaltabili, che abita le crepe, i margini, sono gli ultimi del mondo – silenziosi, dimenticati, fuori dalla scena – che negli interstizi del mondo continuano a incarnare nei loro cadaveri e corpi sofferenti di migranti, oppressi, emarginati, torturati le nostre ultime speranze umane.

A loro bisogna chiedere, a loro dare la parola.

 

*Il presente articolo è stato inzialmente pubblicato da Megachip, Democrazia nella Comunicazione (11/05/2016).

**Foto: © Sara Bissen, The Revolution Will Not Be Televized, Istanbul (Beyoglu), 4 Giugno 2013.

 


[1] Yoann Morvan, Sinan Logie, Istanbul 2023. Paris: B2, 2014.

[2] Sara Bissen, “Take”. In: Aslihan Demirtas, Grafting. Istanbul: SALT, 2016 (in stampa).

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